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giovedì 20 dicembre 2012

SPUNTI DI SPORT-RICORDANDO GIANNI BRERA.

TRATTO DALLA PAGINA DEI LETTORI DEL GUERIN SPORTIVO SU FACEBOOK.

La FOTOCOPERTINA, da me realizzata, dedicata a GIANNI BRERA.



Cari amici, buon giorno a tutti da RUGGERO. Oggi è una giornata triste per noi, appassionati del GUERINO. Il 19 Dicembre 1992 veniva infatti a mancare in seguito a un incidente stradale un grande, un maestro del giornalismo italiano: GIANNI BRERA.

Nel corso della sua lunga carriera BRERA ha collaborato con numerosissime testate, a cominciare dalla GAZZETTA DELLO SPORT, di cui prima fu collaboratore a PARIGI dal 1945 al 1949, e poi ne divenne direttore dal 1949 fino al 1954.
Come ci racconta l'eniclopedia TRECCANI, collaborò al settimanale Tempo (1954-56) e al quotidiano Il Giorno (1956-67), per poi dirigere il Guerin sportivo fino al 1973. Dal 1970 riprese a collaborare a Il Giorno, passando poi a La Repubblica (1982).


LO STILE DI GIANNI BRERA. 

Come leggiamo su WIKIPEDIA, Brera diede vita a uno stile giornalistico innovativo e moderno, basato su una feconda vena letteraria e narrativa e su una cultura classica assai profonda. Introdusse numerosi neologismi (ma anche riadattamenti in ambito sportivo di stilemi della tradizione linguistica italiana, nazionale e dialettale), tuttora utilizzati in ambito sportivo e non, come:

-contropiede: tratto dalla seconda fase della danza del coro delle tragedie greche (anti-pous), descrive l'attacco di coloro che riportano il gioco in direzione inversa dopo aver sottratto palla all'avversario ancora tutto sbilanciato in avanti;
- intramontabile: giocatore che, nonostante il trascorrere del tempo, conserva intatta la propria valentìa (sullo stile del greco "athanasios", "immortale", attributo dei semidei, ma applicato alla meno duratura materia della vitalità calcistica di grandi campioni ancora attivi dopo l'età canonica);
- uccellare: effettuare con successo una giocata ingannevole ai danni di un giocatore, di un portiere o dell'intera difesa avversaria;
centrocampista;
- incornare: realizzare un goal di testa (applica al calciatore l'immagine del toro che si avventa a corna spianate contro la muleta, nella corrida);
- pretattica: l'inizio di una manovra, prima che sia visibile la strategia prescelta;
- melina: dal bolognese gioco della melina (in dialetto al zug da mléina) che sta per “indugiare, cincischiare”, e cioè trattenere il più a lungo possibile la palla;
- goleador: ispanismo che richiama il "toreador" della corrida;
disimpegnare: allontanare la palla dall'area di gioco in cui c'è la calca dei giocatori;
- rifinitura: tratto dal gergo sartoriale, dove designa il tocco conclusivo di confezione di un abito, è applicato all'intervento finale che corona l'azione calcistica;
- cursore: ala tornante molto veloce;
- libero (difensore senza compiti prestabiliti di marcatura): quest'ultima parola è stata accolta anche nelle lingue francese, inglese, spagnola e tedesca;
- Eupalla: dea, anch'essa di sua invenzione, protettrice del calcio e del bel gioco; tratta dal greco (eu: bene) e dall'italiano (palla in greco è la sfaira), la sua invocazione doveva rafforzare il tono epico dei suoi testi.



Ho pensato molto, in queste ore, a come potessimo ricordare qui in pagina GIANNI BRERA. Se fare un articolo commemorativo (rischiando però di scimmiottare sia il GUERIN STESSO, che nel numero attualmente in edicola ha realizzato un bellissimo ricordo di BRERA, firmato da CLAUDIO RINALDI, sia il sito dello stesso GUERIN, che in questi giorni ha ricordato BRERA con un articolo di STEFANO OLIVARI) o qualcos'altro.

Alla fine, dopo una lunga e attenta riflessione, sono arrivato alla conclusione che il modo migliore in cui potessimo ricordare GIANNI BRERA fosse proprio attraverso GIANNI BRERA. Attraverso cioè le sue parole, dando così la possibilità sia ai lettori più giovani di poterlo conoscere, sia ai guerinetti più maturi la possibilità di poterlo riscoprire.

Per questo motivo, quindi, ricorderemo GIANNI BRERA, sia ripubblicando un articolo, uscito all'epoca sul GUERIN SPORTIVO, alcune risposte tratte dall'ARCI POSTA, e poi rivivendo GIANNI BRERA attraverso dei filmati, con in alcuni casi delle vere e proprie chicche.
 


INVETTIVA A PATREM PADUM di GIANNI BRERA.
Tratta dal GUERIN SPORTIVO del 28 Ottobre 1963.

Invectiva ad Patrem Padum
di Gianni Brera

Sono un uovo fatto fuori dal cavagnolo, quando mio padre e mia madre proletari non pensavano più di avere un altro figlio. Mio paese natìo è Pianariva, che l'Olona divide a mezzo prima di confluire in Po. Sono cresciuto brado fra i paperi e le oche naviganti l'Olona. Ho imparato a nuotare con loro e a desumere i fondali dai diversi colori e dalle diverse increspature dell'acqua. Fin da primi bagni mi sono sentito dire da mia madre e da quanti altri temevano per la mia vita che Po è traditore, e che mai avrei dovuto nuotarvi. In compenso, ho appreso dai miei compaesani che uno poteva dirsi degno del clan e della qualifica di vir soltanto se avesse attraversato Po a nuoto, ritornando il più presto possibile alla riva natìa.

Così, per mera bullaggine, ho attraversato Po che non avevo dodici anni. Era periodo di magra e il filo di corrente non era più largo di duecento metri, da un sabbione all'altro. Ma valeva il gesto e io l'ho compiuto. Con me ha traversato un amico più vecchio e anche meno buono di nuotare. Tuttavia mi ha ripetuto la minaccia tradizionale: che se mi fosse venuto un crampo o qualsiasi malore, lui non si sarebbe neanche accorto di me e avrebbe accelerato le bracciate per giungere a riva. Questa che io chiamo minaccia è in realtà una formula d'accordo obbligatoria, perché cercar di soccorrere uno che sta per annegare in mezzo a Po è autentica follia: se lo lasci bere fin quando ha perso i sensi, poi lo ritrovi solo bell'e morto; se lo avvicini prima, ti abbranca in modo che si annega in due.

Frequentando le scuole, ho preso per inconscio narcisismo ad amare i luoghi dove sono nato e a farmi un vanto di avere la casta Olona come madre e il grande Po come padre. Ho pubblicato anche racconti nei quali si descrivevano le paurose piene del Po e si calcava sugli aspetti drammatici della nostra precaria vita sul fiume. Quasi da vecchio ho scritto due romanzi durante le vacanze (perché raccontare è bello, diverte, e dunque non è serio farlo sempre): in entrambi, Po è protagonista. Forse a cagione di questo gli Amici del Po hanno cortesemente deciso di nominarmi alfiere del Po, onore già tributato a scrittori famosi quali Zavattini e Bacchelli.

La consegna della medaglia con diploma ha avuto luogo nel salone pubblico del municipio di Mantova. Persino il mio abulico paese ha inviato una delegazione per onorarmi. Invitato a parlare, ho potuto dire soltanto: "Grazie a nome dei miei antenati pescatori e ghiaiadori morti lavorando sul grande fiume..." A questo punto mi si è ingroppita la gola e sono stato preso da un'inspiegabile angoscia. Ho rischiato anche di piangere, cosa della quale mi sarei vergognato moltissimo.

Considero apallici i molto piagnoni italiani ai quali basta la minima emozione per mettersi a caragnare come vitelli. Mi sono poi spiegato i motivi dell'angoscia. Po si vendicava semplicemente d'un figlio che soffriva (o esercitava) nei suoi confronti il complesso di Edipo. Da ciò ricavai anche la certezza che Po mi era padre e per non eccedere nell'avversione tentai di rimuovere dal mio inconscio quella jattura giungendo ad affermare che Po non esistesse come fiume. Già avevo scritto, fingendomi faceto, che Po lambiva troppe colline da vino per non essere pericolosamente ubriaco qualche volta.

I miei paìs padani si erano divertiti ma io ne avevo preso molta rabbia, insistendo nella ribellione a quel padre così poco serio come fiume. Per essere coerente, mi sarei dovuto rifiutare alla nomina di suo alfiere: ma di certi errori ci si accorge quando è ormai troppo tardi per mettervi riparo. Ho dunque insistito negli studi su Po e sulla storia che avrebbe dovuto determinare… se realmente fosse esistito. Così ora posso giustificare - almeno spero - i miei complessi edipici a esprimere un obiettivo giudizio geopolitico su Po. Ti sarai accorto, cortese lettore, che non indulgo a retoriche di sorta. Molto facile sarebbe abbandonarsi a inni e cachinni. La maestosa corrente di Po; le sorelle Oreadi; l'infelice Fetonte; i fantasiosi greci; l'indovina Manto fondatrice di Mantova nel pantano; bell'Italia amate sponde; scende sul fiume l'infinita sera, e via gigioneggiando su cose in sé discutibili perché quasi tutte false.

La verità è che Po è un sacramento di fiume incostante e capriccioso. Nasce dal Monviso, da un antro che pare giusto la matrice d'un animale mostruoso; arriva a Saluzzo e prende bruscamente a salire verso Torino: qui aggira nuove colline e riceve le Dore, mettendosi a correre sbadato da un sabbione all'altro. Diventa un po' più rispettabile ricevendo il Ticino, la cui parte cerulea si distingue dal resto per una buona ventina di chilometri. Adesso ci puoi crepare di tifo e di epatite virale: ai miei tempi si beveva acqua di Po dalla sèssola, che i toscani chiamano votàzzolo nel loro fossile e noioso dialetto.

Dopo l'amplesso con il Ticino, padre Po rincoglionisce letteralmente e assume l'aspetto d'un inquieto serpentone dalle larghe e inutili spire. Che cosa succede, in effetti? Questo: che da vero vagabondo ubriaco si butta ora contro una riva ora contro un'altra: se trova molle corrode e porta via; se trova duro (o un pennello o una prismata di protezione), il filo di corrente piega con largo giro contro la riva opposta e si scava un novo letto abbandonando quello precedente: ma qui, per una stranezza che gli è propria, Po si lascia dietro fondali bassi che fanno mollente e paiono larghi: queste morte si chiamano lanche: l'etimo di lanche è ancon, greco, che significa gomito.

Se la tua proprietà è sulla riva che Po incomincia a corrodere, ben presto non hai più un metro di terra e diventi povero strapelato; se da questa tua riva viene respinto, prima si lascia dietro una lanca e poi, alla prossima piena, un sabbione che si aggiunge alla tua proprietà e ti rende ricco anche di boschi. Quando ti ritieni ricco anche di boschi, una nuova piena arriva rombando e Po si riprende tutto, la sciandoti disperato e con il culo per terra. Tenuto conto di questi dissesti geologici ed economici, di tutti i pessimi ricordi bio-storici che ti porti nel sangue (paure, morti, impoverimenti ecc.), molto facile torna spiegarsi perché i rivaioli di Po non siano affatto propensi ad amare il loro dispotico padre. E naturalmente ne hanno una paura porca, e tanto più paura hanno dentro quanto più lo detestano e disprezzano, arrivando a ipotizzare che non esista. In effetti, Po non è un vero fiume. È piuttosto la sentina di una grande e fertile valle che sembra l'impronta di una chiglia smisurata.

Gli affluenti lo investono ringhiando, e oppongono dune di sabbia alla sua corrente sciamannata. Quando la furia degli affluenti non veniva contenuta dagli uomini, a ogni piena si creava una palude. Salito a visitarci nel 225 a.C., il povero Catone sentiva chiamare marais (marè) queste paludi e ha tradotto marè in maria, al plurale, e così ha riferito ai romani che in Padania - la Gallia cis e traspadana - vi erano sette mari. A parte questa colossale facezia, su Po se ne sono dette e se ne sentono di orribili. Intanto il nome che deriverebbe dal ligure Bodingomagum: una balla di frate Giulio. Nella paludosa vallata che è oggi nostra patria vagarono per millenni uomini, animali e uccelli. Vi furono anche gli unni e chiamarono Po la regione e il fiume che ne raccoglieva le acque compiendo mille anse viziose. Gli unni erano originari di Mongolia: in mongolo e in cinese, Po significa fiume e palude.

La paura bio-storica dei rivaioli di Po non è una mia invenzione. Ho vissuto la prima piena nel maggio del lontano (ahimè) 1926. L'acqua ci è venuta in casa per sortume, dalla cantina, ancor prima che dall'Olona, che la tremenda foga di Po arginava e faceva crescere anche due spanne all'ora. Pozzi, pompe, forni vennero sommersi, così che non avevamo acqua da bere né pane da mangiare! Per le vie del paese circolava gente stranita a bordo delle navazze in cui si pigia l'uva. Per i bambini era anche piacevole assistere a quel carnevale: ma Po ululava contro i boschi cedui e gli argini come un mostruoso animale apocalittico.

La notte si udivano continui muggiti di stalle terrorizzate e disperatissime grida di uomini che chiedevano aiuto. Le nostre povere case si ammollavano e screpolavano facendoci sentire ancor più precaria la vita. Bisce e topi invadevano i solai rinnovando il ribrezzo che doveva essere dei nostri padri vissuti su palafitte, in paludé e nelle terremare. Poi, lentamente, il vasto ululato del fiume si attenuava in un rugliare lontano e più vago. Infine l'acqua si ritirava lasciando fango e carogne dietro di sé. Distrutti i raccolti, schiantati o divelti i boschi cedui, sconnesse le case e i ponti.

A parte queste inezie, su allegri a celebrare il grande fiume! Esso è vostro, non per altro vi è caro. Ma per noi è difficile seguirvi. E se non bastano le colpe, ecco i difetti. Quando è in piena, Po non è navigabile per il selvaggio furore della sua corrente; e non è nemmeno navigabile quando è in magra, perché il Tahlweg, o filo di corrente, si riduce a serpentine sempre più esigue e oziose; trovi di qui un fondale che la corrente ha preso a colmare sollevando la sabbia (si chiama scalòn, e ci annegano per solito i milanesi), di là un letto non ancora ben tracciato e quindi non abbastanza profondo.

Ancora nel 1380, Po scendeva sparato su Belgioioso e saliva a nord per lambire Corteolona, dove riceva appunto l'Olona: poi piegava a sud-est e passando per Pieve Porto Morone puntava contro Castel Sangiovanni, dall'altra parte. Il mio paese era sulla riva destra. Po rifiutò rombando di percorrere l'ansa di Corteolona e tirò diritto fra Arena e Pianariva rientrando nel suo letto solo fra Pieve Porto Morone e Castel Sangiovanni! In tal modo il mio paese si trovò sulla riva sinistra avendo a sud il fiume che prima aveva a nord e avendo lanche e paludi fra sé e Corteolona. Naturalmente, fu per tutti i sopravvissuti la fame più nera. E chissà quanti altri tapini ebbero a subire nei secoli la nostra stessa sorte: per tacere di Adria, di Spina, forse anché di Mantova e - tristissimo evento - della divina Venezia, che verrà fatalmente sommersa o interrata.

Diamoci dentro, allora, a cantare la gloria di tanto fiume, a celebrarne il mutevole paesaggio: le verdi buttine di salice, i ballottini o isole rispettate (e prima rubate) durante le piene; le osterie che ti offrono frittata con le rane e trance di storione giovane impanate nell'uovo (al burro), i carpioni di striglie e savette, gli umidi di anguille e tinche con i piselli, i fritti di alborelle, i cartocci di carpa e cavedani (ormai tutti pesci di gusto avariato). Allegri anche a dire che Po va navigato fino al mare... con canali paralleli! Quante fregnacce sento, dio buono, quante balle! Po non è mai esistito come fiume e neppure oggi esiste. E' propriamente uno scolatoio a misura della nostra vallata, che non è piccola. Quando Po è in magra, sfoga all'Adriatico per cinque bocche in cui l'acqua non ti arriva alla pancia (in dialetto: gh'è una cavigia, un ginocc, una gamba, un cü, un stumagh, un coll d'acqua).

Le bettoline che devono entrare e uscire di Po s'inghiaiano (in italiano: si arenano) anche se non pescano più di 70 centimetri. E allora che andate cianciando di navigare? I1 padre ubriacone e malignazzo si porta via l'acqua che cresce a ritmi che lui solo desidera (o il buon dio). Se ti corrode la riva e tu sei ricco, disponi in fretta un pennello e mandalo difilato contro i tuoi dirimpettai. Ascolta accigliato chi parla di navigarlo con canali paralleli ( ! ) e domandagli cosa c'entra mai Po con quei canali.

Ho scritto con ringhi edipici di Po che è soltanto la seconda ascissa delle coordinate equoree d'Europa: si capisce che l'ordinata è il Reno e che la prima ascissa è il Danubio. Ho scritto e penso tuttora che l'Italia non sia mai nata perché Po non era un fiume, altrimenti Venezia l'avrebbe risalito più in forze - dico con navi idonee -e avrebbe sottratto la Padania alle ricorrenti follie papaline e alemanne del Sacro Romano Impero, avrebbe avuto sufficienti derrate alimentari, ineguagliabili artigiani del ferro e tessitori di lana e di seta raffinatissimi; avrebbe avuto ottimo vino da esportare in tutta Europa e sarebbe stata la più ricca nazione del mondo. Invece si è sempre inghiaiata a valle di Cremona e non ce l'ha mai fatta a sottomettere Milano (200.000 abitanti) e le altre verdi contrade padane fino a Torino, vezzoso borgo di 12.000 anime (inalora).

Tutto questo io scrivo avendo chiaro il concetto della storia ma a che dei brutti ricordi che Po mi ha lasciato nel sangue. Così ne ho paura, una religiosa e fottuta paura: ma raccontare fole con l'aria di dir cose seriose non mi garba. E se ti sembro matto, o mio cortese lettore, pensa che anch'io sono figlio di Po. Da un padre simile, chi volete che nasca!
 


L'ARCIPOSTA DI GIANNI BRERA-PULICI COME RIVA?

Illustre Arcimatto, come mai hai scritto sul «Giorno» di lunedì 24 (dopo Italia-Olanda) che Pulici fa parte dei «punteros» mediobrocchi e per giunta paurosi? Io non credevo ai miei occhi leggen­do quel tuo commento. Ma se sei stato proprio tu a chiamarlo «Puliciclone brianteo». Di lui dicevi che non esisteva centravanti più degno di rivestire la maglia azzurra (era ancora Riva il numero 11) quan­do esordi in Nazionale contro il Lussemburgo; scri­vevi che Puliciclone non conosce gli indugi, le esi­tazioni, le incertezze. Dopo Italia-Polonia che era una vera punta «talmente dotata di coraggio e di tiro....». Dopo Polonia-Italia, «che aveva avuto at­teggiamenti abbastanza decisi». Infine, nell'interval­lo di Italia-Polonia, al microfono di Ciotti hai detto che «se lanciato, rifarebbe Riva». Allora non è un mediobrocco pauroso?
Spiegami anche in che senso la qualità del calcio praticato oggi in Italia è senz'altro superiore a quello di una volta. Grazie e complimenti per il tuo ultimo libro.


Caro amico, la conoscenza perfetta d'un calcia­tore non è acquisibile se non dopo anni. Nei pri­mi giudizi su Pulici obbedivo alla speranza di ve­dere, un pais sostituire «Rombo di Tuono» Riva: ho poi notato che aveva ritmi assolutamente supe­riori alla tecnica di cui era in possesso: fra questi e quella esisteva una specie di discrepanza disdi­cevole: e ho insistito perché frenasse i suoi slanci a vantaggio del controllo e della battuta. Come tan­ti tecnici passati da Torino, anch'io ho sperato che Pulici esplodesse. Gli ho visto fare gol memorabi­li, addirittura degni di Pelè, e figuracce sesquipe­dali, tipiche di un cavallo falso e perciò non molto apprezzabile. Ho anche notato, alla lunga, che Pu­lici segna sempre in casa, e che fuori, misteriosa­mente, è sempre lanciato a ritmo irrefrenabile do­ve non può giungere la palla. E allora, una doman­da: intuisce prima, sbagliando quasi meritoriamen­te, o sbaglia subito, inducendo all'errore anche il compagno play maker? Finora questo dilemma ri­mane irrisolto ai miei occhi.
Ho giocato negli Anni Trenta ed ho seguito il calcio dal primo dopoguerra: basterebbe la con­statazione che i terreni sono migliorati quasi a li­vello europeo per dedurne che anche la tecnica di gioco è andata migliorando in proporzione. Negli Anni Trenta, i campi davvero erbosi non erano più di mezza dozzina in tutta Italia: la stessa Ca­gliari nel dopoguerra aveva un cortile da caserma fra le derelitte tribune dell'Amsicora: quando, miracolosamente, il terreno è stato coltivato ad arte, l'erba compatta ha consentito l'esplosione di una Squadra che per tre-quattro anni è stata la più splendida d'Italia.
Grazie dei complimenti per il libro di pedate: me lo sono tolto di dosso come un sudario (non è retorica né melodramma: dire scafandro sarebbe stato poco). Adesso basta. Ne rinnoverò l'ultimo capitolo di anno in anno, fino alla morte: lo cor­reggerò anche, questo librone, se mi aiuteranno i lettori a eliminare le zeppe: ve ne sono sicuramen­te molte. Aspetto trepidante.


L'ARCIPOSTA. IL CALCIO ITALIANO NON E' IN CRISI

M'illumino di Brera e ti chiedo:
1 ) perché l'Inter diventi di nuovo gran­de, oltre ai giovani già in forza alla squa­dra (Bini, Catellani, Moro, Guida, Bordon, Casati) saranno sufficienti - ad esempio - gli acquisti di giocatori come Marini, Libera, Orlandi, Tardelli e Rigamonti?
2) la crisi che coinvolge il nostro cal­cio e quello di altri Paesi del 'sistema occidentale', secondo Lei coincide con la crisi politica, economica e morale di tali Paesi? Non è un caso, infatti, che nei Pae­si socialisti europei dove regna ordine e stabilità economica e politica, il calcio è arrivato a buoni livelli (Germania orien­tale, URSS, Jugoslavia nelle Coppe eu­ropee).
Con stima, ti ringrazio.


Bravo, adesso gira l'interruttore e ascol­ta. I giovani che enumeri vinceranno lo scudetto '76-'77: sempre se nel frattempo non verranno aperte le frontiere: perché in questo caso l'Ivanhoe comprerà una ca­terva di brocconi celebri e saremo anco­ra daccapo.
II calcio non è affatto in crisi, anima santa. Il calcio ha solo dilatato i suoi confini: è un gioco veramente universale: ma ha perso attrazione sulla borghesia, che una volta gli forniva i migliori adepti. In Inghilterra è quello di sempre. E si sono elevati gli altri. La condizione poli­tica non c'entra senza dubbio, ma più an­cora quella sociale. Non è vero che all'Est si vada meglio: c'è più spinta, c'è più ri­gore selettivo, e anche ci sono vivai me­glio forniti (senza più classi differen­ziate).
Però i programmi maggiori sono stati realizzati in Germania Occidentale, in Olanda e Scandinavia. Se gli svedesi fa­cessero professionismo, in pochi anni met­terebbero tutti a sedere. Gli svedesi snob­bano il calcio... La loro Nazionale è forse la sola che annoveri un gobbo nelle pro­prie file: segno che a calcio giocano pro­prio gli scorfani. Vi è poi un fatto morale da ricordare: gli svedesi non volevano saperne di professionismo calcistico: nel 1948 hanno vinto l'Olimpiade e sono stati depredati dei migliori: nel 1950 hanno battuto l'Italia e anche quella squadra è stata depredata dagli italiani. Bene: se nel 1954 i dirigenti svedesi si fossero de­gnati di richiamare in Patria gli emigrati e di allinearli ai mondiali, non dubito neppure un istante che avrebbero vinto il titolo. Non vollero saperne, invece, di riabilitare gente che per il denaro aveva abbandonato la Patria e rimasero a casa con il loro dispetto e la lor alterigia.
Il calcio italiano non è affatto in cri­si: è quello che può essere dopo essersi tanto sputtanato con gli stranieri, aver perso il grande Torino e aver dovuto sfruttare la generazione nata e cresciuta con la guerra. Adesso leggo presto Ari­starco Scannabue Baretti che alcuni te­cnici intervistati parlano «del dopo - Ri­vera» e del «dopo - Mazzola», come se quei due grandi mezzi giocatori fossero stati i nostri Di Stefano o i nostri Cruijff. Macché! Anche quando giocavano loro facevano pena, il più delle volte: li ho visti io scottarsi il piedino nel toccare la palla, fuori casa: e sbagliare gol clamo­rosi, e far perdere alla Nazionale clamo­rose partite. I «messicani» ci paiono fa­volosi: da quanti travagli non è uscita quella squadretta che, senza Franchi cen­travanti, sarebbe giunta sesta o settima ai mondiali 1970?
Insomma, amico: non cerchiamo nella politica le ragioni d'una eccellenza pedatoria più o meno marcata: cerchiamola anche nella politica, ma non dimentichia­mo di tener conto della situazione tecnica, dell'attrazione economica, della scuola tra­dizionale, della selezione e dell'insegna­mento. L'uomo fiorisce da una giungla che in Italia è più intricata umida e con­fusa che altrove. Tuttavia, insistendo, si può sempre cavar fuori qualche buona ciabatta. Aspettiamo senza piangere co­micamente su grandezze che mai abbiamo avuto se non barando sulle origini di qualche immigrato all'altezza.
 


BONIPERTI, MAZZOLA, RIVERA (inedito rispetto alla versione pubblicata su Facebook).
Gentile Signor Brera, premetto che non amo molto scrivere a qualcuno senza co­noscerlo e soprattutto per cose come quel­la che vorrei sottoporre al suo giudizio, che reputo tra i migliori ed equi.
Siamo un gruppo di amici e tra tre di noi è venuta fuori una scommessa alquan­to forte riguardo tre calciatori: Boniperti, Mazzola, Rivera.
Ora due sostengono che Boniperti fu un grande calciatore e trascinatore con molta classe, mentre l'altro sostiene che Mazzola e Rivera sono due grandi trasci­natori, uomini squadra, fuoriclasse con grande visione di gioco. Ora ognuno am­mette la grandezza di ciascun giocatore, ma da una parte si vuole ritenere più grande Boniperti e dall'altra Mazzola e Rivera. Secondo lei chi si avvicina di più alla verità? In parole povere chi ha ra­gione? Le dico in confidenza che la som­ma in palio e alquanto alta, i franchi cam­biati in lire sono circa due bigliettoni da centomila, per cui il suo giudizio sarà in­sindacabile.
Nella speranza d'una sua risposta, in­sieme ai miei amici la saluto cordialmente e la ringraziamo di cuore.

 
Immagino che il vostro Mazzola sia Alessandro e non Valentino: si trattasse di Mazzola senior, non esiterei un istan­te a scegliere lui: ma questo probabilmen­te avreste fatto anche voi, senza proce­dere a scommesse di sorta. Bene, vediamo ora di sintetizzare l'arte, i pregi, i difetti dei tre che vi hanno portato al dissidio.
Struttura atletica migliore in Boniperti, alto sul metro e settanta, robusto, pro­porzionato, dotato di scatto e di tiro assai forte, massime al volo con il destro. Atti­tudine al comando dovuta alla nascita (agricoltore sul suo; studi per tutti i fra­telli, e per i genitori, prima). Difetti: ec­cessiva astuzia nei calcoli: rari slanci di generosità. Pregi: tocco di palla superio­re, bel dribbling, forte e bel tiro anche al volo; intelligenza pratica; ottima visione di gioco; equilibrio interiore; educazione buona sotto ogni aspetto.
Rivera: istintiva eleganza dovuta alla coordinazione. Tocco di palla delizioso. Tiro non potente (forza più velocità egua­le a potenza) ma indubbiamente forte, di destro. Dribbling istintivo, talora attuato contemporaneamente all'arresto della pal­la con accompagno in avanti. Visione di gioco superiore. Egotismo plateale nel trattener palla e danzarvi intorno. Senso goleadoristico inferiore a quello di Boniperti e dello stesso Mazzola. Senso acro­batico quasi nullo. Personalità di grande spicco. Scarsa cultura rispetto alle ambi­zioni economiche e sociali.
Mazzola: nasce come prodotto sintetico del calcio milanese, che lo vuole degno del padre morto a Superga. Meazza lo chiama Cretinetti e lo insulta quando esa­gera nel tener palla mentre i compagni sono già piazzati in attesa del lancio o del passaggio. Ossuto al punto da denuncia­re momenti di rachitismo (come Rivera, che è un, brevilineo di statura abbastan­za alta). Fronte quasi olimpica, testimo­ne di notevoli sconquassi ereditari. Cosce ipertrofiche rispetto alla struttura alquan­to esile. Da queste cosce, immagino, gli viene una facoltà di scatto che gli altri due non posseggono, e ancora la partico­larità di tender la gamba al tiro mentre il piegamento del ginocchio induce gli av­versari ad attendersi un altro passo di corsa. Destro secco e improvviso. Tiro forte con i due piedi. (Egotismo quasi in­fantile, per cui passa la palla solo quan­do è marcia, non curandosi affatto di dosarla come garberebbe a chi la riceve. Povero senso registico, nonostante le am­bizioni. Notevole paura nelle entrate acro­batiche (idem per Rivera; un po' meno paura aveva Boniperti, che pure non era un eroe). Viene lanciato nell'Inter e vi figura bene per il costante sacrificio di Milani, il suo panzer di approccio. Intel­ligenza discreta come la cultura.
Detto questo, confermo di aver sempre considerato Rivera e Mazzola due grandi mezzi giocatori; e Boniperti grande in as­soluto. Spero mi crediate. Vi saluto cor­dialmente. 


 RIVERA E LA PODOMACHIA.
 

Caro Brera, parliamo un poco di Milan-Roma che tu hai commentato per il tuo giornale. Intanto: cosa cavolo vuol dire «podomachia»? Credi che serva usare termini noti solo a tuoi pochi intimi? Andia­mo avanti. Dimmi subito come ha giocato Rivera. E' vero che (lo ha detto l'interessato) anche un ex­giocatore come Campana avrebbe fatto la sua figura in simile squallore?
Infine: nell'ipotesi che Gianni Rivera sia più adat­to alla poltrona di dirigente che al campo, come farà Trapattoni a lasciarlo fuori squadra? Come farà, voglio dire, dal momento che Rocco già dal lunedì comincia a dire che la domenica seguente Gianni giocherà?

Bene: parliamo di «podomachia». E' parola com­posita, dal greco «podos» (piede) e «machia», (lotta, disputa): sono stato io il primo a comporla e ne sono abbastanza fiero, se mi credi: «Podoma­chia» vuol dire disputa di piedi o pedate, e si rifa a «logomachia», disputa di parole, cioè vana fino al grottesco. Userò da ora innanzi podomachia per definire loffia una partita: non a caso è stata Roma-Milan a suggerirmela. Un vero insulto al cal­cio lucido e agonistico: una immane seduta sterco­raria (se anche di questa vuoi la traduzione, smetti di leggermi e va' subito a farne una, maledetto).
Rivera ha giocato la seconda volta quest'anno e la prima in campionato proprio all'Olimpico, contro la Roma. Era l'occasione più bella per non venire sbertucciati. Rivera aveva contro Morini, che è stato il migliore della Roma dopo De Sisti e che quasi tutti i nesci hanno visto malamente: Morini ha sba­gliato subito la più comoda palla-gol della Roma e poi si è pienamente riscattato tenendo Rivera senza maltrattarlo e andando anche a far gioco per due punte sciape quei giorno come Prati e Petrini. Un cronista attento dice che Rivera ha toccato quaranta palloni sbagliandone 17 di netto e mettendone a po­sto alcuni con bel discernimento. Io ricordo un paio di aperture e un appoggio, regolarmente sciupati da Maldera e da Bigon in pessima giornata.
Ho anche visto due volte Rivera respingere di testa dalla propria area: una delle sue respinte ha consentito a De Sisti di concludere benissimo e senza fortuna da fuori. Ho sentito che Rocco ha valutato la prestazione di Rivera alla stregua di quella fornita da De Sisti. Ha esagerato molto, per amor paterno o ziale. Se Rivera avesse giocato come De Sisti sarebbe stato il migliore in campo: invece non ha meritato, ai miei occhi, la sufficienza.
Lei si prospetta imbarazzi che Rocco e Trapat­toni hanno perfettamente previsti: ebbene, i due bravuomini contano sull'intelligenza di Rivera, che non può essere masochista al punto da volere, con il proprio, il male della Società da lui amministrata.
Rivera ha anche provato, a Roma, la posizione di ala: non ricordo, però, di avervi visto compiere cose particolari. Due volte ha tentato di dettare il passaggio lanciandosi in avanti: altrettante volte Benetti e Scala non sono riusciti a raggiungerlo con la palla. I due mi sono sembrati abbastanza cariche di broccaggine: quanto a Rivera, non due, ma quattro lanci lunghi ha sbagliato, quando si è ingegnato di farli per servire Bigon o Vincenzi sottomisura.
Prima di affermare se Rivera nuoce alla squa­dra, aspettiamo di rivederlo in Milan-Juventus.


IL GENOA, BORDON E IL DOLCETTO.

Esimio dottor Brera, sono una sua as­sidua lettrice per cui penso che il Guerino venga acquistato per la massima parte dei lettori solo per il godimento spirituale di leggerla. Mi risponda ora (senza drib­blarmi però) alle seguenti domande:
1) Lei è genoano come me. Non ha ri­tenuto doveroso far sentire la Sua voce nell'infuriare della polemica Baldazzi-Fossati.
2) Ha mai visto giocare Toni Bordon? Dirottato a Cesena a novembre è stato utilizzato solo saltuariamente da Bersellini. Il quale in predicato di passare al Genoa, avrebbe definitivamente distrutto, se tale eventualità si fosse verificata, un giocatore valutato a suo tempo più di mezzo miliardo. Bordon è un ragazzo molto sensibile. Se Lei gli farà pervenire un incoraggiamento avrà la riconoscenza mia e di tutti genoani. Dica chiaramente se lo considera o meno un bidone.
3) Il Guerino dovrebbe varare una ru­brica di atletica leggera. Anche in relazio­ne a questa (da Lei tanto amata) discipli­na sportiva è possibile fare un discorso critico e politico.
RingraziandoLa le porgo i sensi della mia indefettibile stima. Se ha occasione di passare da Cremolino potrà gustare un dolcetto '71 che mio marito Gianni, Suo affezionato discepolo, tiene in serbo per Lei.


Gentile signora, le sono molto grato delle cortesi espressioni di cui mi fa og­getto. A pregiata sua riscontrare, debbo aggiungere che meno grato le sono per la stilettata inferta alla mia ignavia di genoano. Ho letto solo i titoli della que­rela intercorsa fra Baldazzi e Fossati. Non conosco Baldazzi: avevo creduto di capire che possedesse anche i sesterzi per legittimare le proprie ambizioni tecnico-amministrative. Alla resa dei conti, sem­pre se ho potuto capire bene dai titoli, Baldazzi si è dovuto ritirare e Fossati è tornato in possesso del bastone di co­mando.
Ho parlato abbastanza con Fossati per capire che è un entusiasta con la testa sul collo. I giornalisti - tifosi di Genova non la pensavano come me e forse ave­vano più numerosi elementi di giudizio. Io so poco e niente di una società che amo per essermi contagiato, la prima volta, proprio del suo entusiasmo. Anni sono passati (oh quanti) e considero questo mio amore con una sorta di impaccio.
Ho visto Bordon l'anno della promozio­ne in A. Mi sembrava lento per il posto di centravanti: era da impostare, secondo me, a centrocampo: possedeva un tiro assai forte: tutto lasciava credere che potesse sfondare, un giorno o l'altro. Ho inco­minciato a sospettare che non fosse vota­to a grande carriera solo quando è stato insistentemente cercato da Fraizzoli, che notoriamente non ne azzecca mai una. So che Silvestri si è molto indignato nel constatare che Bordon lo stava amara­mente deludendo: l'ha anche maltrattato, confidando che l'orgoglio lo rimettesse in corsa: nulla è servito: Bordon ha de­luso. Ha poi cercato di rigenerarlo il Ce­sena. Non credo vi sia riuscito, sebbene sviluppasse un ottimo gioco a favore del­le punte. Ella mi chiede di incoraggiarlo. Come è patetico tutto ciò, gentile signora. Ecco qua: lo incoraggio. E poi?
Il Guerino varerà anche una rubrica di atletica leggera, culto dell'uomo. Un giornale illustrato con la sua formula non può prescindere da quello sport. Ne sono convinto anch'io, come lei. Ringrazi suo marito Gianni. Il dolcetto è un onestissi­mo vino plebeo: mantiene sempre quel che promette. A mio parere va rispettato come il buon vecchio Piemonte.



RITRATTO BREVE DI FAUSTO COPPI- LA GAZZETTA DELLO SPORT DEL 27 LUGLIO 1949.

Nel 1949 GIANNI BRERA, all'epoca alla GAZZETTA DELLO SPOIRT, di cui sarebbe diventato DIRETTORE, dedica un ritratto a uno dei più grandi campioni del ciclismo italiano dell'epoca: FAUSTO COPPI. Andiamo a leggerlo insieme.

RITRATTO BREVE DI FAUSTO COPPI. Di GIANNI BRERA.

Così l'ha fatto il buon Dio che se tu lo vedi all'impiedi, uomo come tutti gli altri, costretto a mantenersi umilmente in equilibrio, la tua presunzione non se ne adonta.

La prima impressione
Su due spalle stranamente esili s'innesta il capo che neri e lisci capelli, quasi mai pettinati, paiono rendere allungato a dismisura. E il collo, che pure è sottile, quasi si perde nella secchezza della mandibola e nella nuca folta di capelli. Il torace, per una anomalia che è invece funzionale e a tutta prima non ti spieghi, via via che scende, ingrandisce, lo sterno pare carenato come negli uccelli.

Ancora ogni normale linea anatomica viene smentita in lui da un improvviso dilatarsi delle anche, dall'assenza totale di un ventre che minimamente sporga, da una brevità del tronco allorché l'uomo è all'impiedi, che rende vistosa assai la solida falcatura delle reni. E poi queste reni brevi e potenti non paiono terminare, prosaicamente, in glutei, ma subito si continuano in cosce di inusitata lunghezza in cui balzano evidenti muscoli sciolti e affusolati. E sottili, nervose sono le ginocchia, snelli i polpacci, agili le caviglie.

Come lo vedi camminare quest'uomo, subito egli ti sembra goffo e sproporzionato, non fatto, direi, per muoversi in terra, come tutti. Il suo passo, alla ricerca di un equilibrio malagevole e difficoltoso è quasi stentato e sghembo. Le braccia, assai gracili, spiovono inerti, impacciate dalle spalle non larghe. E la tua presunzione non se ne adonta. Piccolo comune uomo quale sei, non ti entra al suo cospetto nell'animo l'amaro dell. umiliazione fisica, quel senso di inferiorità che subito intimidisce e anzi talvolta annichila come di fronte all'atleta esteticamente bello e possente.

Per comprenderlo
Per questo, forse, l'istinto induce subito ad ammirarlo. Le sue imprese sportive, quali che siano, acquistano sempre luce epica: perché l'uomo normale giustifica con l'eroismo, cioè con doti morali non sue, le superiori prodezze di chi gli appare simile.Tuttavia Coppi, fuori da ogni dubbio, uomo normale non è. E vi accorgete di questo vedendolo non già camminare, come noi tutti, bensì quando è in sella e pedala.

Ora, per comprendere Coppi, bisogna assolutamente invertire i rapporti funzionali della bicicletta nei confronti dell'uomo. In fondo, la bicicletta altro non è che una povera bonaria concessione alla nostra ansia di andare. Dunque uno strumento. Non avesse avuto i gusti estetici che sappiamo, amando per conseguenza il cavallo come il miglior modello dopo l'uomo, forse Leonardo avrebbe concepito l'idea della bicicletta dopo aver inventato il differenziale. La costruirono invece, utile, ma certo antiestetico complemento della loro natura comune, uomini che il genio non innalzava. E rimase poi sempre com'era, nel suo concetto fondamentale: un aiuto alle nostre povere gambe negate al moto veloce. Uno strumento suppletivo. Sinché non venne allo sport Fausto Coppi.

Congegno di muscoli
La struttura morfologica di Coppi, se permettete, sembra un'invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta. Coppi in azione non è più un uomo, del quale trascende sempre i limiti comuni. Coppi inarcato sul manubrio è un congegno superiore, una macchina di carne e ossa che stentiamo a riconoscerci simile. Allora persino i suoi capelli che il vento relativo scompiglia, paiono esservi per un fine preciso: indicare la folle incontenibile vibrazione del moto.

Il volto affilato e nervoso è un completamento della dinamica meravigliosa cui pure obbedisce il torace a carena. Le braccia sono due aleroni d'attacco. Non altro. Dalle reni ampie e falcate, dalle anche robuste si partono i muscoli che conferiscono alle gambe di Coppi quell'aspetto di leve disumane. Nel giro uniforme della pedalata, questi muscoli schioccano come elastici or tesi or rilassati con arte sagace e il brillio dei raggi, nelle due ruote, entra per la sua parte a creare uno spettacolo di meccanica facilità e di umana vigoria che conquista.

Allorché agile procede sul piano, l'abusata immagine della locomotiva che avanza per alternarsi di bielle in rotazione ti viene imposta da Coppi. Allorché, dondolando ritmicamente sui pedali, si attacca ad una salita e tu vedi Coppi al di là di ogni umano limite rinnovare l'antica bellezza dei miti più non osi guardarlo se solo pensi che egli è, come te, uomo. Più non osi per non sentirti a petto suo, troppo meschino. E allora pensi spontaneo esaltarlo come un fenomeno unico dello sport: ed esaltarti in lui che, grandissimo e ineguagliabile campione, è almeno, come te, italiano.


ITALIA-GERMANIA 4-3. Di GIANNI BRERA. IL GIORNO, 18 GIUGNO 1970.

Italia: Albertosi; Burgnich, Facchetti; Bertini, Rosato (dal 1' del p.t. suppl. Poletti ), Cera; Domenghini, Mazzola (dal 46' Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva.

Germania Ovest: Maier; Vogts, Patzke ( Held dal 65' ); Schnellinger, Schultz, Beckenbauer; Grabowoski, Overath, Seeler, Müller, Löhr (Libuda dal 51' ).

Arbitro: Yamasaki ( Messico )

Marcatori: Boninsegna all'8' del p.t.; Schnellinger al 45' del s.t.; Müller al 4' del p.t.suppl.; Burgnich all' 8' del p.t.suppl.; Riva al 14' del p.t. suppl.; Müller al 5' del s.t. suppl.; Rivera al 6' del s.t. suppl.


"Il vero calcio rientra nell' epica... la corsa, i salti, i tiri, i voli della palla secondo geometria o labile o costante..."
Non fossi sfinito per l' emozione, le troppe note prese e poi svolte in frenesia, le seriazioni statistiche e le molte cartelle dettate quasi in trance, giuro candidamente che attaccherei questo pezzo secondo ritmi e le iperboli di un autentico epinicio. Oppure mi affiderei subito al ditirambo, che è più mosso di schemi, più astruso, più matto, dunque più idoneo a esprimere sentimenti, gesti atletici, fatti e misfatti della partita di semifinale giocata all' Azteca dalle nazionali d'Italia e di Germania.

Un giorno dovrò pur tentare. Il vero calcio rientra nell' epica: la sonorità dell' esametro classico si ritrova intatta nel novenario italiano, i cui accenti si prestano ad esaltare la corsa, i salti, i tiri, i voli della palla secondo geometria e labile o costante...Trattandosi di un tentativo nuovissimo, non dovrei neanche temere di passare per presuntuoso. "Se tutti dovessero fare quello che sanno", ha sentenziato Petrolini, "nulla o quasi verrebbe fatto su questa terra".

È vero. Prima di costruire il ponte di Brooklyn, l' architetto che lo progetta non è affatto sicuro di esserne capace. Io stesso, disponendomi a cantare una partita di calcio, non saprei di poterne cavare qualcosa di valido. Però la tentazione è grande: ed io rinuncio adesso perché sono stremato, non perché non senta granire dentro la voglia di poetare. Italia-Germania è giusto di quelle partite che si ha pudore di considerare criticamente. La tecnica e la tattica sono astrazioni crudeli.

Il gioco vi si svolge secondo meno vigili istinti. Il cuore pompa sangue ossigenato dai polmoni con sofferenze atroci. La fatica si accumula nei muscoli male irrorati. La squadra, a stento nata traverso la applicazione assidua di molti, si disperde letteralmente. Campeggia su diversi toni l' individuo grande o fasullo, coraggioso o perfido, leale o carogna, lucido o intronato. Se assisti con sufficiente freddezza, annoti secondo coscienza. Non ti lasci trasportare, non credi ai facili sentimenti, non credi al cuore (anche se romba nelle orecchie e salta in gola). Ho sempre in mente di aver cercato invano di capire come siano andate realmente le cose nella finale mondiale 1934. Nessun cronista italiano aveva visto: tutti avevano unicamente sentito.

Ora mi terrorizza l' idea che qualcuno debba scorrere un giorno questo articolo senza capire né poco né punto come si sia svolta la memorabile semifinale Italia-Germania dei mondiali 1970. Retorica ne ho fatta solo a rovescio, giustificando la mia umana impotenza a poetare. Ho dato un. idea di quanto avrebbe meritato lo spettacolo dal punto di vista sentimentale? Bene, non intendo abbandonarmi a iperboli di sorta.

Fuori dunque le cifre: e vediamo di interpretarle secondo onestà critica e competenza. Soffoco i miei sentimenti di tifoso con fredda determinazione. Parliamo allora di calcio, non di bubbole isteroidi. I bravi messicani sono impazziti a vedere italiani e tedeschi incornarsi con tanto furore. Adesso fanno i loro ditirambi. Pensano di apporre una lapide all' Azteca. Sarei curioso di leggere: e magari di veder fallire in altri la voglia di poetare ore rotundo.

I nostri ospiti hanno gaiamente bruciato adrenalina ad ogni sconquasso, e Dio sa quanti ne siano stati perpetrati in campo. Ma domenica c'è Italia-Brasile, e sarà, garantito, anche peggio. Basterà una lapide un po' più grande per ricordare tutto. Non anticipiamo, please. In finale sono due "equipos bicampeones": dunque è sicuro ( a meno di eventi imponderabili ) che la Coppa Rimet avrà finalmente un padrone definitivo. Questo conta!

La squadra azzurra, benchè gloriosissima finalista, non va troppo lodata per ora. Guardiamola freddamente. L' Italia è finalista, con il Brasile, della Coppa Rimet: questo può bastare alla nostra gioia di tifosi, anche se sul partitone di ieri, che ci ha portato a battere i tedeschi, è meglio ragionare, di modo che non si gonfino equivoci pericolosi. La prima doverosa constatazione è questa: gli italiani si sono battuti, quasi tutti, con slancio virile, molto ammirevole e, in certo modo, sorprendente. È difficile non dirsi fieri di questi guaglioni, dopo quanto si è visto e sofferto.

Se l' altura non è un' opinione, vinceremo per la terza volta i mondiali: questo ho detto e ripeto. Ma bisognerà che non giochiamo come s'è fatto ieri, proprio no. La memorabile partita è stata avvincente sotto l'aspetto agonistico e spettacolare: si è conclusa bene per noi, e questo è il suo maggiore pregio, ai miei occhi disincantati. Sotto l' aspetto tecnico-tattico, è da ricordare con vero sgomento. Sia gli italiani sia i tedeschi hanno fatto l'impossibile per perderla. Vi sono riusciti i tedeschi.

Evviva noi! Errori ne sono stati commessi millanta, che tutta notte canta. I tedeschi ne hanno forse commessi meno di noi, ma uno solo, madornale, è costato loro la sconfitta. Enumero gli errori italiani. Si parte con Mazzola, buon difensore, si segna e si regge benino. Marcature discutibili (su Seeler andava messo d'urgenza Burgnich): ma all' avvio tutto fila. Boninsegna tenta di servire Riva, stolidamente soffocato in mischia, riceve un rimpallo di Vogts e cannoneggia a rete: sinistro imperdonabile: gol. È il 7' . I tedeschi arrancano grevi. Giocano con tre punte e mezzo, come con gli inglesi: le ali, Muller e Seeler. Acuiscono via via il forcing ma non cavano più di due tiri-gol di Grabowski: li sventano Rosato e Albertosi. Muller conclude fuori una volta. Seeler non riesce a tirare affatto: rifinisce soltanto.

Gli italiani concludono spesso con Riva, tuttavia mal situato. Mazzola tiene Beckembauer e potrebbe segnare al 40' se l'arbitro gli concedesse la regola del vantaggio. Facchetti inciampa nei piedi di Beckembauer, lanciato a rete, e lo fa ruzzolare. Un arbitro meno onesto darebbe rigore (17' ). Riva spreca di testa una palla-gol (40') e un' altra ne sbuccia a metà (parata in angolo di Maier:42').

Secondo tempo. Mazzola e Boninsegna sono stati avvertiti il mattino che uno di loro verrà sostituito da Rivera. Nell'intervallo si sostituisce Mazzola, il migliore in campo. Un collega tedesco, Rolf Guenther, sospira: "L' ultima nostra speranza è riposta in Rivera". Maledetto. Come sostituire Bonimba, pure molto bravo, e autore del gol? Dunque, fuori Mazzola. Entra Rivera e assiste smarrito al forcing tedesco, sempre più acre. Domenghini è chiamato su Beckembauer ma, ben presto, Schoen manda in campo Libuda, a destra, sul più sciagurato Facchetti dell' anno, e poi addirittura espelle Patzke e getta in mischia Held, un grintoso biondone dal piglio da ss. Domenghini deve dividersi, a soccorso di tutti.

Il forcing tedesco è così fiducioso che Riva al 5' e Rivera al 12' possono battere a rete autentiche palle-gol. Purtroppo sono sciape, e Maier le para entrambe. Sotto Albertosi, continue gragnuole. Seeler giganteggia, sgomitando Bertini e venendone sgomitato. Mischie furenti nella nostra area. Due falli da rigore rilevati per onestà (e dàlli): Rosato su Beckembauer e Bertini su Seeler. Una rimbombante traversa di Overath (19' ). Una respinta di Rosato sulla linea. Un gol sbagliato da Muller. Due o tre parate gol di Albertosi.

I tedeschi ci assediano. Rivera guarda. Domenghini affoga. Dal'area, continui richiami. Nessuno torna, dalle posizioni di punta (eppure Riva è meglio in difesa che all' attacco, di questi tempi: sissignori). Il predominio tedesco è avvilente. Il pubblico ruggisce all' ingiustizia del punteggio. I tedeschi attaccano con Libuda, Seeler, Muller, Held e Grabowski di punta, e dietro loro premono Beckembauer e Overath. Un vero disastro. Una sproporzione di forze impressionante. Valcareggi prende atto. Io arrivo ad augurarmi che segnino alla svelta i tedeschi perchè mi vergogno (e ne soffro).

Sono difensivista convinto ma questo non è calcio: è una miseria pedatoria. E anche stupidità. Non abbiamo vigore sufficiente al facile contropiede. I tedeschi schiumano rabbia. Infine pareggia Schnellinger, al 47' 30". E meno male che è lui, der italiener. Non l' abbiamo corrotto: Carletto è onesto Segna. È la sesta punta. Schoen gioca senza libero, ormai. Vogts su Riva e Schultz su Bonimba. Gli altri, tutti avanti (per nostra fortuna).

Tempi supplementari. Si fa male Rosato, entra Poletti. A parte una lecca a Held, che se la merita, gioca di punta per i tedeschi, e segna al 5' . Cross di Libuda (che inciucchisce Facchetti), testa a rifinire di Seeler: palla morta in area, Poletti non stanga via, accompagna di petto verso porta: Muler si frappone: Poletti e Albertosi fanno la magra: 1-2. Sciagura. Pubblico osannante. Meritiamo, meritiamo, come no?

Ma qui incominciano gli errori tedeschi. Pur imitando Ramsey, Herr Schoen ci ha preso per degli inglesi. E insiste a WM. Vogts commette fallo su Riva. Rivera tenta il pallonetto perché incorni qualcuno: chi c'è in area tedesca? Il furentissimo Held. Il quale di petto mette graziosamente palla sul sinistro di Burgnich, l'immenso: 2-2. Dice che il pubblico si diverte, a questi scempi. Il critico prende atto: ma rabbrividisce pure.

I tedeschi sono proprio tonti: ecco perché li abbiamo quasi sempre battuti. Nel calcio vale anche l' astuzia tattica non solo la truculenza, l' impegno, il fondo atletico e la bravura tecnica. I tedeschi seguitano a pencolare avanti in massa. Così segna anche Riva. Domenghini si ritrova all' ala sinistra (dove non è il mio grande grandissimo sbirolentissimo Bergheim?): crossa basso: trova Riva. Riva tocca a lato di esterno sinistro, secco, breve: scarta di netto Vogts ed esplode la rituale mancinata di collo. Gol strepitoso.

É il 14' del primo tempo supplementare. I tedeschi sono anche eroici (e quante botte pigliano e danno). Sono stanchi morti, ma quando Seeler suona il tamburo (con il gomito in faccia a Bertini) tutti ritrovano la forza per tornar sotto e pareggiare. É angolo a destra. Batte Libuda. Seeler stacca da sinistra e rispedisce a destra: Muller dà una incornatina che Albertosi segue tranquillo: sul palo è Rivera (ma sì, ma sì): il quale sembra si scansi. Albertosi lo strozzerebbe. Rivera china il capino zazzeruto e la fortuna sua e nostra gli offre subito il destro di salvare sé e la squadra. É il 6' : lanciato sulla sinistra: Boninsegna ingaggia l' ennesimo duello con il cottissimo Schultz: riesce a crossare basso indietro: i pochi tedeschi in zona sono su Riva. Rivera in comodo allungo si trova la palla sul piatto destro e freddamente infila Maier, già squilibrato prima del tiro.

Adesso è proprio finita. I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti (a mi, nanca un po' ). Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato.

Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l' infarto, non per ischerzo, non per posa. Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l'aspetto tecnico-tattico. Sotto l'aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan).

I tedeschi meritano l' onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo. Ci è andata bene. Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso regalo fatto a Burgnich (2-2). L' idea di impiegare i dioscuri Mazzola e Rivera è stata un po' meno allegra che nell' amichevole con il Messico. Effettivamente Rivera va tolto dalla difesa. Io non ce l' ho affatto con il biondo e gentile Rivera, maledetti: io non posso vedere il calcio a rovescio: sono pagato per fare questo mestiere. Vi siete accorti o no del disastro che Rivera ha propiziato nel secondo tempo?

Tutto all'aria, tutto sconnesso. Se non vedete e amate, almeno rispettate chi vede, e proprio perché vede si raccomanda che Rivera sia punta o mezza punta, non centrocampista, mai! Da punta è andato benissimo, sia nell' amichevole con il messico, sia con gli stessi tedeschi, sebbene di palle ne abbia lavorate assai poche. I sentimentali, immagino, avranno cantato sonori peana per tutti. Preferisco attenermi alla realtà non senza ringraziare i tedeschi per la loro cieca dabbenaggine tattica e l'arbitro Yamasaki per la sua vigile comprensione...

Ora siamo in finale, e si può vincere. Ma bisogna condurre veramente la squadra, non guardarla atterriti dalla panchina. Valcareggi e Mandelli, guidati da Franchi (ma sì) hanno molta fortuna: Napoleone gradiva moltissimo i generali fortunati. Sono graditi anche da noi, benché siamo tifosi e non imperatori. Però la fortuna - alla lunga - meritata. Mercoledì è stata meritata, onestamente: e fortuna è stata anche quella di non vincere 1-0 in 90' rubando la partita da pitocchi, dopo la rabbiosa e squassante offensiva tedesca.

Il 4-3, a pensarci, legittima tutto: anche le nostre fondate ambizioni a vincere definitivamente la rimet. Ma se commettiamo gli sfondoni di mercoledì con il fiero e disinvolto Brasile, poco poco ne prendiamo de goleada. Attenti, allora. Da domani studiamo la partita, ci ragioniamo su e vediamo com è possibile farla nostra, se davvero sarà possibile.


NEREO ROCCO. Di GIANNI BRERA.

È morto Nereo Rocco e io non debbo nemmen pensare di poter piangere. È un diritto, ahimè, che non mi appartiene da tempo. I miei sentimenti non contano. Tanto più sarò suo amico, quanto meglio riuscirò a ricordarmi di lui senza frapporre l'amicizia fra me e il mio lavoro insolente. "Prepara il coccodrillo", mi era stato ordinato con presago cinismo. "Un'ostia!", avevo ruggito, a sorpresa, con la sua stessa voce. Io so che è già morto ma voi non lo dovete sapere: voi dovete aspettare, maledetti, che lo sappiano tutti. Allora mi metterò al carrello, e garantito che saprò battere i polpastrelli senza il minimo groppo in gola.

Così cerco di fare adesso che tutti lo sanno. E se volete capire meglio dirò che avevo già pianto e bestemmiato come voleva la nostra amicizia tutta particolare. Ho qui sott'occhio un cartoncino per auguri con su stampati I nomi di Nereo e Maria Rocco, Trieste, Via M. d'Angeli 28, telefono 791636. La data, Capodanno '78-'79: la calligrafia piccola e slegata di uno che è stato a scuola ma ci ha la mano troppo tozza per tenere la penna con un minimo di disinvoltura: Gioannin carissimo, grazie per i tuoi fraterni graditi auguri… contracambio con sincero affetto e brindo alle tue fortune purtroppo con l'acqua Fiuggi. Ti prego ricordami alla tua famiglia ancora grazie. Nereo .

Non so di grafologia e ancor meno di acqua Fiuggi. Ma questo suo biglietto era un testamento e io l'ho recepito con dolorosa rabbia. Improvvisamente mi s'è stretto qualcosa nelle viscere, me n'è venuto un disagio che era quasi paura. Allora ho capito che Nereo era morto, e che del suo stesso male potrei morire anch'io, e ho la sfacciata onestà di ammettere che non sapevo se fosse più il dolore o la paura a farmi piangere. "Dobbiamo andarlo a trovare", m'ha detto un amico. "Ma neanche!", ho subito reagito in un ringhio. Siamo stati anni senza vederci per rispetto della nostra stessa professione. E quando voleva il caso che ci incontrassimo, dopo il primo impulso al solito fraterno e divertito abbraccio, avvertivamo l'imbarazzo degli amici veri, che la vita ha ormai diviso, ma tradirsi non possono e non vogliono per nessun motivo al mondo.

Però, immancabilmente, ci si metteva a bere con la meditata calma si chi a bere ha imparato non solo per gioia ma anche per condanna ereditaria. E fatalmente ci danneggiavamo l'un con l'altro non potendo mentire. Io raccontavo pari pari tutto quanto a sua volta raccontava. Al diavolo gli interessi, le convenienze, gli obblighi: qui siamo insieme e qui beviamo sentendoci fratelli. Poi, chi vivrà vedrà. Ma alla fine ci coglieva quasi il rimorso di tradirci e tradire. L'uno leggeva negli occhi dell'altro la sconvenienza, il rischio, il pentimento. Ciascuno rientrava berciando nel suo mondo. Brutto mona, co' se vedemo, finisse sempre mal! Ecco, dicevo: accetterei di andarlo a trovare se potessimo bere come sempre. E lui nel testamento m'ha confidato di essere alla fine, di poter solo brindare con l'acqua Fiuggi. Se per disgrazia lo inducessi a trasgredire, la colpa sarebbe mia. Non voglio rimorsi di questo genere.

Ciao, Nereo, grazie di essermi stato amico, grazie di tante ore e giorni trascorsi insieme. Da oggi ti do per morto e ti piango senza mostrare a nessuno quel che sento. Purtroppo sei l'ennesimo amico che mi lascia. L'istinto bruto sarebbe di insultarti. Pensa cosa si direbbe di noi se lo facessimo: tu qui ridotto all'acqua minerale, io alle invettive del sempiterno goliardo invecchiato lavorando, e solo, ormai, con un fegato come il tuo (ma non è stato lui a tradirti, lo so bene: troppo facile ai filistei consolarsi di averci invidiati: eh, sfido, con quel che hanno bevuto!).

È che il mondo non sa distinguere fra chi beve "per scientiam" e chi per sete banale, o addirittura per vizio Noi eravamo fieri di non avere mai sete e spesso bevevamo per evitare il pericolo di averla. Che fastidiosa noia, dover bere per sete, che banale destino! Les hommes qui ne boivent pas ne sont pas bons. Ciò, Nereo, senti 'sto vinellin. Aveva magari 14 gradi e Nereo fingeva di esserne atterrito. Poi parlavamo. E non c'era mai nube che ci potesse reggere, per cui tornavamo difilato in terra. E il senso pragmatico di Nereo non era mai affetto da cinismo. Ci sentivamo colmi di rimpianti asburgici, disarmati, o quasi, mit den Italienern. Noi tonti lombardi, voi gnocchi triestin. E un masochistico piacere di sentirci far fessi, però anche ringhiando puntuale disprezzo.

Ironia, sarcasmo, burbera tracotanza. Tasi ti, che ti sè tanto testa de mona che tuti i mesi te perdi sangue del naso! Battute pronte per ogni interlocutore. E il tipico pudore del figlio d'un borghese recessivo. Tanti puffi m'ha lassà me padre… Però te lo confessa senz'ombra di rancore. Scuote il capo, ne ride. Pensa ti che 'l voleva sonassi 'l piano. E ti sa il resultà? Che g'ho sonà il triangolo nella banda del Corpo d'Armata. Tutte le domeniche in piazza Unità a Trieste, naturalmente co' no gh'era partida. Interventi ripetuti (ton tin tin) nell'Arlesiana…

Lezioni di piano, sissignori, e ragioneria con tanta poca voja. Per la Triestina delira Saba poeta, ma dovrebbe mè pare? Ti te zoghi ben e mi te dago 'l premio. Così andavano le cose: che il premio al figliolo promettente zogador in Triestina lo dava 'l scior Rock, il figlio d'un viennese scappato a Trieste per amore, drio a un'acrobata o ballerina da circo, pensa ti, e spagnola per soramercà: la mia nona. Lo vedo la primissima volta all'Arena, in un allenamento della nazionale (facciamo uno dei primi anni trenta): sinistri al volo da mortificare un gigante come lui triestin, mi pare Blason. La trionfante salute psicofisica dei giuliani non ancora afflitti da angoscia del domani. Mai dimenticati quei potentissimi tiri a volo di pieno collo, e neanche la rabbia di Blason, che pure acchiappa e raccoglie la palla con una sola delle sue manone.

Del giocatore Nereo Rock più nessuna notizia. In nazionale trova Gioânnin Ferrari e recede come suo padre, già stato ricco venditor de carne. Emigra al Sud e sorride - sempre - ricordando Napoli. Poi, la routine presso a casa, la guerra, l'ennesima liberazione d'Italia e di Trieste. Consigliere comunale con i piedoni tosti per terra. Una seconda famiglia: due bei figlioli che studiano. Il primo gioca anche a calcio: "ma ti no ti sè 'bastanssa bravo e quindi ti te curi la bottega: nel calcio basto mi".

Allena con sbalorditivo genio pragmatico. Gli italianuzzi si abbandonano a becera imitazione degli inglesi e lui vuole il metodo mantenendo due terzini centrali. Un giorno ritornerà in Italia, questo suo modulo prudenziale, e si chiamerà Riegel, verrou, catenaccio. Pensa che giri: ma è pur sempre un viennese, Rappan, a sentire e vedere come lui. A pensarci, vi è quasi da piangere, tanto siamo fessi.

Ma Nereo non ha ancora voce. E quando l'Inter gli prende Blason, secondo terzino d'area, lui smania nel vederlo comicamente sacrificato sull'ala. Brutte figure da vergognarsi: la "grosse Berthe" messa a guardia d'un alberello di ciliegio. Poi, qualcuno capisce di rimandarlo al suo posto e l'Inter vince non uno ma due campionati!

Nereo è ancora lontano dalla ribalta principale: invece pontifica Viani, un astuto Porthos senza pudori sociali di sorta: uno che vince a poker, la notte, i soldi per il viaggio domenicale della squadra. Anche Viani capisce che il WM è un lusso proibito, anzi masochistico per noi, e arretra il centravanti sul centravanti avversario. Diviene dunque libero lo stopper in seconda battuta: libero - dico io - da incombenze di marcatura. Tutto il mondo adotta e chiama libero il secondo terzino d'area: in Italia, terra di grandi ingegni, proibito.

Sulla nostra stessa barca sono un po' tutti gli ex calciatori italiani passati alla tecnica (quelli che hanno studiato, non i muscolari, anche celebri ma fin troppo ignoranti). Dal castello di poppa, tonitruante, Nereo. Il suo pragmatismo sincero diventa taumaturgico. Rigenera vecchie rozze mal capite (come lo stesso Blason), lancia ragazzini veloci e coraggiosi, adatti al contropiede. Nasce allora, invocato, il calcio all'italiana e garantito che il suo più limpido interprete è Nereo. Senza falsa modestia, sono io il teorico. Lottiamo insieme a colpi di risultati e, nella metafora, di sessola e di remi. Le molte brutte figure della nazionale verrebbero subito evitate se i consoli osassero vestire il Padova di azzurro. Ma per ora il catenaccio è il diabbolo, pensa te: e nessuno capisce o vuol capire.

Finisce però che si commuovono anche gli Agnelli: sull'inclita panchina della Juventus, Nereo risparmierebbe alla nazionale dieci anni di umiliazioni cocenti. Niente. Il presidente del Padova teme il linciaggio se molla Rocco ai suoi stessi padroni (vende Fiat). Così Nereo deve attendere di approdare al Milan, dove comanda Viani: ed è un gran brutto vivere. Nereo non conosce astuzie dialettiche di sorta. È un tonto triestin: e quindi non riesce a mentire. Per mi, 'l calcio xe questo e che no me conti bale! Per fortuna , i risultati fioccano a dispetto d'una cricca conservatrice o conformista o vile: Viani è malato e, invidioso, gli tira contro. Nereo vorrebbe andarsene. Guai al mondo! Rimane e porta il Milan allo scudetto. C'è anche Rivera piccolo, el bambin d'oro (che per il momento, poco correndo e pensando sul gioco, non molto gli piace).

La lotta al WM è già vinta dall'anno del torneo olimpico di Roma. Viani in serpa a tacitare gli scribi, lui in panchina e nello spogliatoio, dove si destreggia come chi sa bene cosa pensa e cosa fa un pedatore di professione. Grosse parole, mai, atteggiamenti furbi, nemmeno. Dalla panchina torna sudato più dei giocatori: e con loro si spoglia e prende la doccia sentendone tutti I discorsi, dei quali puntualmente si serve per governare il timone. Sotto la doccia, il sudore acre dei poveri, le contumelie, le lodi, le reciproche accuse: e la partita interpretata a caldo. Poi con gli anziani, diciamo gli arimanni, si riflette e decide per il meglio.

Poco abile politico, è un grande in spogliatoio, non in sede. Ai presidenti non bacia né vellica niente. Cambia città (e si pente): scopre nuovi Italienern, magari contagiati di vezzi franciosi: così rimpiange i lombardi e torna fra loro per vincere un altro campionato, un'altra Coppa Campioni. Rivera si è fatto uomo e un po' ne viene plagiato. Rivera sta a Nereo come la callida volpe al toro manso. Ma bello è poterlo sentire figlio, alzare la voce a proteggerlo, lui toro , manso tutto de fora, estroverso, goliardo invecchiato, e torvo solo per gioco, l'altro tutto introverso, compito, abatin. "Xe Rivera la nostra Stalingrado", si lagna di me Nereo: e si capisce che non può seguirmi neppure quando ho ragione. Rivera è il solo dei suoi che pensi calcio in grande stile: al diavolo se al pensiero non s'accompagna sempre l'azione.

È il suo Prinz Eugen, talvolta addirittura il suo Allah: ed è per sincera amicizia che noi due cerchiamo di non danneggiarci a vicenda, di incontrarci il più raramente possibile: ma quando Franchino Carraro vorrebbe farla a pugni, in Messico, lui gli ingiunge di non sognarselo nemmeno: Gioani ze 'n amigo: e onesto, salo?, onesto. Pensa che notizia, un bel round di pugilato con il futuro presidente del CONI! Ma per fortuna Nereo ha qualche anno più di noi e di Rivera, al quale dice: se ti te torni in Italia, te rovini. Gli altri anni - gli ultimi - sono di gloria, di fama così scontata da fare, al massimo, invidia. Il vecchio goliardo lotta con acidi urici, trigliceridi e colesterolo. Forse anche il morbus domini lo importuna: e la gotta.

La natia Trieste è diventata per lui un curioso esilio. L'azienda paterna rifiorisce per Bruno; L'altro figliolo è laureato e lavora in farmacia. La pacata ma energica sciora Maria lo assiste e perfino diverte con premure sempre meno fastidiose. In puro triestin mi ripete una saggia massima brianzola:"Ten bona la tô vegia / perchè al moment giust / la te laverà i mudant anca in de l'acqua fregia". Così lo penso, povero Nereo, convinto di morire, perduto ormai per il calcio, che era la sua vita, il suo lavoro onesto, però non solo, però circondato dai suoi, che gli volevano bene.

Caro vecchio Nereo, se avessi pianto non avrei finito a tempo questo lavoro che l'amicizia, soltanto l'amicizia non mi rende gravoso né ingrato. Il magone mi è venuto quando ho letto la tua ultima lettera. Non è da noi piangere. La tua vita è stata buona. Al tuo ricordo, amico, brinderò come tante volte abbiamo fatto insieme. Addio Nereo, ti sia lieve la terra.
 


ITALIA 1970 VS ITALIA 1982: DUE GRANDISSIME A CONFRONTO. Di GIANNI BRERA. (Tratto da REPUBBLICA del 4 MARZO 1988).

Ogni squadra vive lo spazio d'un torneo, che corrisponde al mattino d'una rosa: e si batte in clima e in altitudini particolari, contro avversari che l'antica saggezza del sangue italico finge di accettare al punto da subirne l'iniziativa: poi, fatta la parata, si risponde a sorpresa in spazi comodi, e magari si combinano sfracelli.
Ora, proprio questa considerazione m'induce a credere che la nazionale 1970 e la nazionale 1982 giocherebbero una partita paragonabile al duello di Tecoppa, famosa maschera meneghina portata alla ribalta dal comico Ferravilla.

La nazionale allestita da Valcareggi giocava un povero calcio, da vera e propria caisse à èpargne (così ebbe a definirla un collega belga, Herbautz): aveva due centravanti formidabili, Riva e Boninsegna, un centrocampo fondato su un mulo da corsa, Domenghini, su Bertini, stangatore emerito, su De Sisti, ragionierino del calcio, e su due grandi mezzi-giocatori: Rivera e Sandro Mazzola. La migliore idea di Valcareggi fu di sfruttare i due "grandi-mezzi" come se fossero Uno, con la staffetta: Mazzola partiva il primo, sapendo recuperare e difendere; Rivera entrava quando il ritmo era più blando e poteva costruire con maggiore agio per le punte. Difendeva meglio Mazzola e quindi era più gradito a centrocampisti e difensori; costruiva meglio Rivera, e quindi era meglio accetto alle punte, specie a Riva.

La nazionale del 1970 passò il primo turno segnando un solo gol alla Svezia (1-0) e pareggiando senza reti con Uruguay e Israele. La Svezia marcò in sleale raddoppio Riva, che sbagliò quattro palle-gol e uscì di senno. Io tuttavia scommisi
con Sivori che l'apparizione di Mazzola interno garantiva risultati insperatissimi: Sivori non sapeva dei precedenti e storceva il naso. Il secondo turno iniziò con il Messico a Toluca, dove giovò agli azzurri la maggiore altura (2740) rispetto a Città Messico (2250): il Messico scoppiò malamente dopo un tempo e ne prese 4 (a 1)! Con questa partita prese avvio definitivo la staffetta Mazzola-Rivera: i nesci della pelota, giuocando sui sentimenti, avversarono il solo stratagemma che consentì a una squadra mediocre di arrivare alla finale. Non escludo comunque che i migliori centravanti siano stati il povero Franchi e l'arbitro De Leo.

In finale ci fu crisi di appagamento (secondo l'intuizione di Mandelli) e la ribellione dei ciompi invidiosi contro Rivera, che Valcareggi fu costretto a escludere. La partita più memorabile di quel mondiale fu la semifinale con la Germania Ovest. Finì 4-3. I tedeschi avevano nei garretti le ruggini dei supplementari con gli inglesi, malamente traditi dal portiere di nome italiano. L'arbitro giapponese era allievo di De Leo. L'ultimo gol venne segnato da Rivera, che aveva appena propiziato il 3-3 dei tedeschi. Albertosi voleva strozzare Rivera, che se ne andò mestamente avanti mentre Bonimba spendeva le ultime energie in un'eroica sgroppata sull' estrema sinistra: il portiere tedesco si aspettava il cross e si piazzò sul secondo palo: Bonimba traversò basso all'indietro e incontrò felicemente l'incredulo interno destro di Rivera, che battè a colpo sicuro sul primo palo. Pensai, riflettendoci, al duello fra Achille e Ettore sotto le porte Scee. Achille scagliò la lancia: Ettore la schivò: Pallade Atena la raccolse per ridarla al Pelide: allora il prode figlio di Priamo si accorse che la sua sorte era segnata. Una Pallade Atena che poteva benissimo chiamarsi Eupalla evitò a Rivera lo strangolamento da parte di Albertosi e gli offrì benigna la palla di Bonimba che significò il suo trionfo. In finale non giocò Rivera, i cui lanci sarebbero stati utili. Riva e Bonimba non ebbero un passaggio decente se non da Piazza, brasileiro. L'arbitro ci protesse (ah, vecchio Artemio) ma ormai correvamo sui glutei, come marmotte paralitiche. Gli italiani del Brasile ci evitarono la melinatura finale e fu 4-1.
I napoletani Palumbo e Ghirelli, molto bravi nell'interpretare i sentimenti umani, non già nel capire il calcio, deplorarono Valcareggi per aver escluso Rivera e per poco non indussero i romani (dico la nobile plebs romana) a linciare Mandelli, Valcareggi e gli altri "venditori" del titolo mondiale. C'era di che sprofondare. Palumbo venne elevato agli altari e santificato secundum justitiam. Ghirelli dirige l'"Avanti" con la bravura che tutti gli riconoscono (pur io).

La squadra mondiale 1982 finì per giocare un calcio più nobile. All'avvio pareva non valer nulla. Bearzot aveva già inventato il meglio nel '78 (quanto a modulo): in Spagna aveva due centravanti: il redivivo Rossi e il buon Graziani, più generoso che bravo. In centrocampo, Tardelli, Antognoni e Oriali, ai quali però si aggiungeva un omarino prodigioso: Bruno Conti.
La squadra iniziò penosamente: fece 0-0 con la Polonia (vana una traversa di Tardelli). Fece 1-1 con il Perù (partita peggiore in assoluto) e 1-1 con il Camerun. Si classificò seconda del gironcino per aver segnato la miseria di un gol più del Camerun, pure imbattuto. Così le toccò il secondo turno con due squadre snervate dal caldo e rovinate dalla presunzione: Argentina e Brasile. L'arbitro dell'Argentina era favorevole a Franchi e consentì a Gentile di far ammattire Maradona. L'Argentina era piena di presunzione e beccò due reti (segnandone una su punizione, quando ancora l'arbitro doveva fischiare, con Passarella). Menotti, grande ciolla, disse che gli italiani non giocavano al calcio: impedivano semplicemente di giocarlo agli avversari.
I brasiliani vennero informati su di noi da Altafini, noto geniaccio della pelota, e da Falcao: lo confessò Zico a Udine, nel suo candore: "Pensavamo di darvene cinque". Invece ne presero 3, dandone 2 a noi. Gli bastava il pari per escluderci dalle semifinali: vollero batterci: si offrirono al nostro contropiede: li perdonò l'arbitro (favorevole a Havelange): Rossi subì un fallo da rigore non visto e Antognoni segnò il quarto gol, annullato per fuorigioco assai discutibile. La semifinale con la Polonia venne dominata con due gol di Rossi, l'hom dal partit; la Germania si presentò in tocchi alla finale: non valeva l'Italia. Antognoni si fece male contro i polacchi e Bearzot ebbe la fortuna di poterlo sostituire con zio Bergomi, non ancora diciottenne: costui annichilì Rummenigge e Conti inciuchì tutti, inducendo Briegel a commettere fallo da rigore (che Cabrini sbagliò). Segnarono Rossi (di testa su rimbalzo, incredibile), Tardelli (dolcissimo sinistro sul secondo palo mentre il portiere si spostava sul primo) e Altobelli, servito a pennello da Conti.

Della squadra 1970 avrei preso Riva, Bonimba e, per eventuali staffette, Rivera e Mazzola.
La nazionale dell'82 ebbe una fortuna quasi sfacciata: però giocava un calcio più armonioso e sagace di quello fornito dagli azzurri '70. Dei mundiales 82 furono prodigiosi Conti (il migliore del torneo in assoluto), Rossi, Tardelli e Scirea. Degli azzurri '70 fu il più continuo Bonimba, seguito da Domenghini e Mazzola, Cera e De Sisti; Riva e Rivera emersero tardi.
Per la brutta fine che hanno fatto in Messico, gli azzurri di Valcareggi non mi sembrano da preferire a quelli di Bearzot. Questo penso io. Altri la penseranno a modo loro. Sono padronissimi. Eupalla è una dea, non una sfera: secondo com'è vista può sembrare.
 


LA TRAGEDIA DI SUPERGA: NEL DOLORE IL CALCIO CAMBIò. Di GIANNI BRERA. (Tratto da REPUBBLICA del 4 MAGGIO 1989).

La storia attiva e passiva d'Italia è piena di date orrende: questa del 4 maggio 1949 riguarda lo sport e deve considerarsi una macabra tragedia, non immune come tutte le nostre vere tragedie da un mortificante grottesco. A Superga è perito il Torino, che giustamente venne poi ricordato come grande. Era importante, agli occhi degli italiani, come Bartali e Coppi, Nuvolari, Varzi, Ascari, Farina e Villoresi, Tenni e tutti coloro che li aiutavano a uscire dalle mortificazioni di una guerra gratuitamente perduta.

Il Torino aveva scremato il vivaio calcistico italiano con mezzi di persuasione davvero irresistibili. Il C.T. della nazionale Vittorio Pozzo, vecchio militante della squadra granata, sollecitava i migliori della nazionale giovanile ad accettare le offerte del Torino, quali che fossero, perché giocando sotto la Mole sarebbero sempre stati alla sua portata: li avrebbe seguiti e consigliati per il meglio, così da maturare al più presto per la maglia dei moschettieri azzurri. Dal canto suo il presidente Ferruccio Novo, industriale medio torinese, esercitava il proprio compito assicurando ai firmatari del cartellino granata (disemm inscì) i vantaggi indubitabili dell'esenzione dal servizio militare bellico: magari sarebbero stati chiamati alle armi, però destinati a Corpi non direttamente impegnati sui fronti di operazione: ed ecco perché il campionato del '44 toccò ai misteriosi pompieri del nucleo spezzino...

Ferruccio Novo aveva assunto prima delle inique leggi razziali l'ungherese israelita Egri Erbstein, intelligente come pochi e come pochissimi informato di calcio. Erbstein era stato nascosto da Novo con tutta la sua famiglia. Alla fine del conflitto, il tecnico tornò fuori e trovò di avere a disposizione il meglio della pedata italica. Per quanto riguarda il modulo, il Torino applicava un tantino pedissequamente il WM inglese.
Pareva a Erbstein di essere all'avanguardia, ma già incominciava ad accorgersi che il modulo faceva acqua in fase difensiva. Non ne ho le prove certe, ma mi fa testimonianza lo scrittore pavese (e torinista) Folco Portinari, che ebbe modo di consultare i preziosi appunti di Egri: ad affidarglieli era stata la signorina Erbstein, di professione ballerina. Egri incominciava a parlare di geometria (cosa che feci anch'io in altra sede) e sono certo che bastasse questa intuizione a portarlo prestissimo alla scoperta degli spazi e alla più conveniente copertura dei medesimi.

Il Torino aveva tutto il meglio o quasi del prosperoso (allora) vivaio italiano e poteva consentirsi tutte le licenze tattiche di questo mondo. Io però lo vidi beccare 6-2 dall'Inter di Carcano, il vecchio marpione che aveva guidato anche la Juventus del quinquennio 1931-35. Carcano aveva evoluto il metodo a W chiamandolo, come tutti, mezzo sistema. Applicando quel modulo, improntato al difensivismo uruguagio-argentino, la Triestina e il Modena avevano conquistato il secondo posto in campionato dietro al Torino, troppo potente perché i poveri cirenei della critica italiana si potessero accorgere di nulla. Il WM era di moda e perfino Pozzo, che lo aveva osteggiato, ebbe a dirmi dopo un clamoroso Doria-Torino, finito 0-5, che secondo lui i granata di Erbstein avrebbero tranquillamente battuto anche la famosa Juventus del quinquennio, proprio quella che aveva innervato la nostra prima nazionale campione del mondo.

Ripensando alla poderosa formazione di Erbstein verrebbe spontaneo definirla una delle più forti del mondo: il giudizio è comunque induttivo, sebbene i contatti internazionali deponessero per la sua fondatezza: era però deficitaria l'impostazione tattica, se è vero che la nazionale innervata dal Torino aveva subito un mortificante 0-4 dagli inglesi nel '48, proprio a Torino, e che gli stessi inglesi non irresistibili avevano perso 0-1 con gli USA due anni dopo ai mondiali brasiliani.

Il grande Torino perì a Superga perché così era scritto che finisse quella magnifica e insieme astuta creazione di Novo e di Pozzo. Le circostanze sono note (purtroppo) nel mondo intero. Dopo un certo Italia-Portogallo giocato a Genova, il vecchio Pereira chiede al collega capitano Valentino Mazzola che il Torino si presti a giocare in Lisbona la partita che il Benfica dedica al suo più valido atleta, ormai giunto al commiato dallo sport. Il generoso Mazzola promette e Ferruccio Novo pone come condizione che il Torino pareggi l'incontro decisivo di San Siro con l'Inter, che insegue a 4 punti e non è ancora rassegnata alla sconfitta.
Il capitano Mazzola accetta a nome di tutti. L'incontro finisce 0-0: il Torino è matematicamente campione. Può dunque prepararsi per l' involo di Lisbona. La trasferta in Portogallo viene considerata alla stregua d'una gita turistica. Vi prendono parte i tecnici Erbstein e Livesley, il coach inglese, i giornalisti Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, capo dei servizi sportivi della Gazzetta del Popolo, e Luigi Cavallero, che è capo dei servizi della Stampa e deve farla fuori con Vittorio Pozzo per non venir lasciato in redazione dal collega più vecchio e famoso.

L'amichevole di Lisbona (pase de adios del buon Pereira) finisce 1-0 per il Benfica. La comitiva torinese si affretta a raggiungere l'aeroporto dove l'attende, pronto all'involo, il Charter G 212. Tutti i gitanti sono pieni di doni per familiari ed amici. La rotta del G 212 è stabilita da tempo: l'atterraggio è previsto per l' aeroporto internazionale della Malpensa, nei pressi di Milano: qui aspetta, come stabilito, il pullman sociale chiamato Conte Rosso... Come è già accaduto qualche altra volta, l'aereo dribbla la Malpensa, e con quella i finanzieri delegati a fare dogana, per atterrare, inatteso, a Torino.

Il cielo è coperto. Sono le ore 17,05. Il G 212 s'immerge sobbalzando in una gran nube che sovrasta le colline torinesi. Pochi istanti trascorrono ricorda la mia Storia critica del calcio italiano ed è un orribile schianto. Tradito dagli strumenti di bordo, il pilota non si accorge di volare diritto contro la scarpata della Basilica di Superga. Nell'urto immane, l'aereo esplode come una bomba. Ai primi soccorritori si presenta uno spettacolo orripilante. Membra umane sono sparse all' intorno con i resti sconciati dell'apparecchio. Identificare i cadaveri è quasi impossibile. Il solo impavido Vittorio Pozzo ha cuore di prendersi questo compito pietoso e orrendo.

La notizia della sciagura si abbatte sull' Italia e sul mondo. Per tutti è cordoglio e pena. Non era mai accaduto che un' intera squadra perisse a quel tragico modo. Il bilancio è terribile. La città di Torino e l'Italia perdono diciotto fra i migliori atleti che vantasse il nostro calcio. Il vuoto appare subito incolmabile. Un'intera generazione viene decapitata... Il Torino stava sostituendosi alla Juventus nel tifo degli italiani. In Valentino Mazzola vedevano tutti il meglio del nostro calcio sopravvissuto alla guerra.

Con lui sono periti almeno altri undici elementi di valore internazionale certo: il portiere Bacigalupo, i terzini d' ala Ballarin e Maroso, il centromediano Rigamonti, i centrocampisti Castigliano, Grezar, Martelli e Loick, le punte Menti II, Gabetto e Ossola, la riserva e già nazionale di Francia Bongiorni. Il lutto è atroce. La tragedia ci appare come una maledizione biblica, non meritata dal Torino né dall' Italia. Poi, com'è fatale, se ne ricercano le cause al di fuori del tragico destino che ha consentito la sciagura. Affiorano le miserie più vili, le astuzie torbide, i sotterfugi illegali. Vi è chi parla di contrabbando di valuta e persino di droga, di un cambio di rotta improvviso per ingannare i finanzieri comandati alla Malpensa. Ahimé, nella tragedia stona qualsiasi rilievo, foss'anche ragionevole e doveroso. La realtà è tale che lo sdegno aiuta a superare la desolazione. Ma intanto quei meravigliosi ragazzi non sono più con noi.
E l'acerbo rimpianto non ha fine.
 


PRO VERCELLI. A LEI LA GRATITUDINE DI TUTTI NOI. Di GIANNI BRERA. (Articolo nostalgico in cui Brera ricorda la PRO VERCELLI )

L'agiografia, unicamente ispirata all'entusiasmo, parla del 1892 come dell'anno di fondazione: quasi sicuramente si confonde il calcio con la ginnastica, che era alla base della primissima attività sportiva. Nella ginnastica rientrava ogni gesto agonistico, dal salto in alto alla pedata. Questo è accaduto in tutte le nostre città: ma non in tutte si fa confusione fra parallele e tiri di shoot.
Il primo a parlare di calcio fra le mura vercellesi è stato Marcello Bertinetti, ingegnere, olimpionico di spada e padre di olimpionico. Bertinetti sapeva di inglese e traduceva i manuali di football per i compagni appassionati al nuovissimo gioco. Quando la Pro Vercelli ha deciso di iscrivere la sezione calcio alla Federazione, i suoi pedatori sapevano da tempo cosa significasse un palleggio, uno schema, un lancio, un dribbling, un tiro.
La divisa sociale era quella che poteva scegliere un filo-inglese della tempra di Bertinetti: tutta bianca dal berretto, o cap, ai calzettoni, nei qual entravano i calzoni svasati. Secondo la retorica del tempo, i vercellesi vennero chiamati anche le bianche casacche, forse perché al posto delle maglie si portavano camicie con tanto di bavero.

La prima apparizione in campionato ebbe luogo nel 1908. Quell'anno vennero iscritte solo 4 squadre, la Juventus, la Pro Vercelli, l'Unione Sportiva Milanese e l'Andrea Doria: erano state respinte le iscrizioni del Genoa, del Milan e del Torino, che allineavano anche giocatori stranieri.
La Pro ricevette la Juventus e ne subì il pareggio (1-1): restituì la visita e vinse 2-0. La scoppola indusse gli juventini a ritirarsi. I vercellesi li fecero fuori con l'Unione Milanesa e l'Andrea Doria, riuscendo a prevalere per 1 punto sui milanesi. La prima formazione va ricordata: Innocenti; Salvaneschi, Celoria; Ara, Milano I, Leone; Romussi, Bertinetti, Fresia, Visconti, Rampini I. Di questi elementi si conservano ricordi mitici.

Milano I era il centromediano-regista: era alto, atletico, mai stanco di correre, impostava il gioco con poderosi lanci alle ali, coglieva le rimesse incornando senza paura (la palla pesava sul mezzo chilo e quando s' ingrom- mava di fango e accelerava in caduta non doveva causare impatti da poco sulla fronte del centerhalf!). Milano si rimboccava le maniche quando il gioco di squadra non quagliava ed era necessario partire alla riscossa. Elementi di buona classe erano Ara, Leone, Fresia e Rampini I. Il livello di gioco era alquanto modesto. Penso che la mitica Pro non se la caverebbe oggi con una squadra di Promozione. Questo non toglie nulla al merito di quei gagliardi che avevano il giusto orgoglio di esser nati fra le stesse mura.
Si sa che i vercellesi sono di ottima tempra. Il loro etnos è colto (a differenza dei novaresi, che sono liguri).

Poche province hanno prodotto tanti campioni quanti i vercellesi. Nel calcio sono millanta, che tutta notte canta. Ai meno informati faccio un nome piccolo piccolo: quello del mio primo colossale abatino: Livio Berruti. I campioni di scherma, nella scia del primo Bertinetti, sono anche numerosi. Nel calcio si sprecano i grandi: fra i pionieri quelli che ho citati, poi Virginio Rosetta, Silvio Piola (prestato dai lomellini di Robbio), Depetrini, Ferraris II e Castigliano. Lo slancio dei vercellesi era proverbiale come il loro orgoglio.

Purtroppo (e dirò pure per fortuna, ad evitare inutili ipocrisie), il calcio era in grande progresso anche e soprattutto per loro merito. Il livello tecnico cresceva ad ogni stagione.
Venne il tempo in cui non fu più sufficiente il vivaio. Le grandi città imposero la legge del più forte anche e soprattutto sul piano finanziario. Partirono prima Viri Rosetta e poi Silvio Piola, destinati a grandi traguardi internazionali. L'industria delle metropoli mortificò l'istinto sparagnino degli agricoltori. La Pro lasciò la A nel '35. E' anche possibile che, avendolo scoperto fra i primi, i vercellesi abbiano individuato del calcio i limiti sociali, avvici- nandolo con sempre minor affezione. Per dirla schietta, il gioco è squisitamente plebeo, non qualifica socialmente: i piccoli borghesi preferiscono giochi più signorili...

Così gli appassionati di calcio si dolgono di una scomparsa che forse è scritta nella storia delle cose, diciamo del progresso umano e sociale. Gli industriali più ricchi del Vercellese stanno per ottenere la sede provinciale a Biella: non possono soffrire come i sentimentali per la cara vecchia gloriosa Pro.
Il mondo evolve e l'agricoltura, dovendo sempre difendersi, è rimasta sparagnina.
Se anche avessero conservato la tenuta del nonno, non credo che i discendenti del prode Rampini accetterebbero di vendere una pertica di terra per salvare la società. Il mondo cambia davvero: restano le lapidi, la nostra ammirazione, la gratitudine di tutti.


 LA DOMENICA SPORTIVA DEL 16 MAGGIO 1982. Andiamo ora a pubblicare, tratta da RAI SPORT 2, la DOMENICA SPORTIVA del 16 MAGGIO 1982. A condurre quella stagione ADRIANO DE ZAN. Tra un blocco e l'altro dell partite il commento di GIANNI MURA, raccolto dal grande BEPPE VIOLA. Buona visione!


L'INTERVISTA A NEREO ROCCO 1° PARTE.

Cari amici, sperando di farvi cosa gradita, a questo punto, vado a pubblicare una vera e propria perla in due parti: un'intervista di GIANNI BRERA assieme a GIANNI MINA all'amico NEREO ROCCO svoltasi a TRIESTE, realizzata nel 1974 poco prima dei mondiali di MONACO, e trasmessa qualche anno fa da RAI STORIA.

Da rilevare quanto, rispetto a oggi, allora il calcio era sentito molto più come un gioco, e sopratutto l'assoluta naturalezza in cui si svolge l'intervista, a tavola, tra amici, quali erano BRERA e ROCCO. 



Vado a pubblicare la seconda e ultima parte dell'intervista di GIANNI BRERA a NEREO ROCCO. Buona visione! Ruggero


Cari amici, con l'intervista a NEREO ROCCO si chiude questo nostro speciale in cui abbiamo voluto ricordare GIANNI BRERA, attraverso i suoi articoli e testimonianze video. Un modo per ricordare un grande maestro del giornalismo che avrà sicuramente un posto speciale nel cuore di noi Guerinetti.

                                                    Rüdiger Franz Gaetano Herberhold

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